Uno degli argomenti di cronaca/storia più delicati da trattare e da discutere a Genova è senz’altro il G8 e le “due giornate di Genova” che hanno accompagnato la riunione dei capimondo a metà del luglio 2001.
Conoscendo un po’ Pino Petruzzelli ero certo che il suo spettacolo “Portraits: G8” avrebbe raccontato qualcosa di quelle giornate con delicatezza e intelligenza, senza cadere nel banale o nel qualunquismo.
Però è sempre bene verificare sul campo le proprie certezze, cosa che ho fatto giovedì scorso, andando a vedere lo spettacolo di Pino e Massimo Calandri nel piccolo teatro Garage, nel quartiere di San Fruttuoso.

Uno spettacolo di difficile preparazione, i testi vengono recitati/letti da una decina di persone diverse, e ogni sera gli attori cambiano, insomma, mi pare siano state coinvolte nello spettacolo 64 persone, da eminenze della politica e della cultura locale (il presidente della Provincia, autorevoli esponenti della chiesa locale tipo Don Balletto e don Gallo, poeti, uomini di teatro, attori e attrici teatrali) a illustri-ma-un-po’ meno personaggi dell’arte e dell’imprenditorialità genovese. Cioè ogni sera gente diversa racconta con voci e toni ed espressioni diverse la stessa storia, vista da occhi menti teste voci mani divise armi pensieri idee ideologie rabbie passioni timori violenze diverse. Quelle dei “black blocs” e quelle dei poliziotti; quelle delle magliette nere che bruciavano auto e cassonetti scendendo per via Tolemaide al rullo dei tamburini sbandieratori e quelle delle divise con caschi e scudi che hanno assalito la ormai famosa scuola Diaz picchiando a casaccio nella notte senza nessuna vera ragione. Uno scontro di violenze diverse, di diverse incomprensioni, di inutili odi.
Però Pino & friends lo raccontano bene, senza alzare la voce, senza lanciar proclami, limitandosi a narrare solo un po’ di fatti ormai dati per certi, direi quasi senza prendere posizione (cosa rara e difficile in quest’italiana democrazia che, come dice il Gaber postumo “a farle i complimenti ci vuole fantasia”). Nel proemio dello spettacolo Pino afferma che si può credere nella validità delle idee “no global” (anzi, new global) senza voler distruggere fisicamente chi e cosa no global non è e insieme si può credere nella giustizia delle forze di polizia senza acconsentire ad azioni di violenza come l’incursione alla scuola Diaz. Io l’ho detta un po’ così, ma il concetto è quello. Concetto a mio parere quasi ovvio, come quando Manzoni dice che i torti e le ragioni non si dividono mai in maniera netta, ma so bene che per tanti, fra la classe politica come fra i besagnini del Mercato Orientale tanto ovvio non è. Son quasi convinto che ci sia stato qualcuno fra gli spettatori che avrà stentato a capire come si possa parlar male e parlar bene insieme e allo stesso tempo sia dei manifestanti che delle forze dell’ordine.
Inoltre, Pino & friends hanno anche l’intelligenza e il buon gusto politico oltre che umano di non coinvolgere Carlo Giuliani – lo nominano una volta solo e quasi en passant – né per deificarlo né per criminalizzarlo.

Due momenti particolari che “mi hanno colpito particolarmente”, come si diceva nelle riunioni degli scout 20 anni fa: il primo è un pezzo di discorso di un black bloc, che in un discorso in generale violento dà una spiegazione “alta” del significato che ha per lui la strada, il vivere sulla strada, il non volerla usare solo come mezzo per spostarsi da un luogo all’altro in mezzo a cartelloni pubblicitari e stazioni di servizio ma come ambiente di vita e di socializzazione. C’ho ascoltato sentori di nomadismo, di viaggio, benché perversi nella frenesia del fuoco e della distruzione, e ho pensato che forse in fondo la lotta di Genova fra le forze dell’ordine e le maschere nere anarchiche è stata (anche, in parte, magari inconsciamente, forse solo per pochi) un’altra battaglia della guerra eterna fra i popoli stanziali e i popoli nomadi, tra chi fonda le ragioni della sua esistenza sul luogo in cui vive e coloro che per vivere si muovono, fra la casa e la tenda. Arabi e Tuareg, Europei e Zingari, Romani e Barbari, Americani e Pellerossa… Boh.
Il secondo momento pregevole è il discorso finale, quello del giudice che veste di nero come i black bloc, ma per tutt’altre ragioni, più filosofiche e più nobili, diciamo; che con tono paterno di anziano custode saggio, severo e disilluso si rammarica per l’essersi rotto il rapporto di fiducia con la polizia, con coloro che collaborano – di solito – con lui per custodire la legalità. E riflette.
Per me, il pezzo migliore dello spettacolo, a degna conclusione.

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