Là nella campagna industrial-commerciale di Còmago, presso Manesseno, lungo il torrente Secca, dove Genova diventa Sant’Olcese, c’è Villa Serra. A fine ‘700 era un nucleo di case rustiche con cappella della famiglia Pinelli-Gentile ma nel 1850, passata ai Serra, fu trasformata in una villa neogotica sontuosa con un grande parco all’inglese. Dopo varie vicissitudini e abbandoni la villa è stata restaurata or non è guari ed ora è – nel suo genere – magnifica. Uno non è detto che ci abiterebbe, ma è un piacere osservarla. E girare per il parco, col laghetto e alcuni enormi alberi, una sequoia, conifere varie, ortensie, insomma varrebbe la gita dal centro città anche senza la mostra dei mèzzari. Ma c’è anche la mostra, pur con strani orari e un po’ relegata nelle stanze del retro, e allora…

“I’-zar, in arabo, significa velo. Forse questa è l’origine del nome mèzzaro, il tessuto in seta o cotone che entrava nel corredo delle spose genovesi, corse e sarde già dal Duecento, come copriletto, tovaglia o velo da capo. Nel Settecento il mèzzaro si tinge di colori e motivi indiani e diventa un’arte veramente genovese; in India si dice che i colori fanno vibrare l’anima, e i mèzzari creati dalle tessiture genovesi diffondono sinfonie di vibrazioni, prodotte dai vivaci colori dell’albero della vita coi suoi rami carichi di fiori colorati e circondato da uccelli, fiere e ghirlande policrome. Per essere indossate dalle fanciulle di buona famiglia il giorno delle nozze, per rallegrare le pareti e l’arredamento delle case, oggi come allora”

Fatte salve le inevitabili piccole modifiche apportate dal buon M.R., questo è quanto leggerà sui “mèzzari” chi si appenderà al chiodo il calendario della Carige 2003, nel mese di, boh, forse maggio. Nella mostra c’è di più, in verità, visto che intitola “mèzzari, pezzotti e mandilli”, ovvero grandi teli, teli più stretti da indossare in estate e fazzoletti da capo, diversi, almeno in linea di principio, da quelli “da naso”.

Infatti ricordo “la Rita”, la simpatica signora di mezz’età che veniva quand’ero giovinetto a fare le pulizie in casa nostra, la Rita era di Lerma, alto Monferrato, solida donna di campagna col bell’accento zeneise di entroterra, e diceva “fazzoletto da naso” per intendere quello dell’etciù. A me, giovane di città cresciuto da una mamma e una nonna materna urbanizzate e borghesi, che non giravano con veli in testa se non per entrare in chiesa, risultava poco chiaro perché dire “da naso”… che ce ne sono altri, di fazzoletti? Poi imparai, e compresi.

Mèzzari, tessuti di cotone stampato derivati dai “palampores” che gli indiani producevano già nel VI secolo d.C. e che nel ‘600 i mercanti di spezie introdussero in Europa, con gran soddisfazione delle dame parigine, inglesi e olandesi. Dal 1648 qualche intraprendente armeno iniziò a produrne in proprio a Marsiglia, pensando che sarebbe costato meno farli in Europa che continuare a importarli dall’India, e da Marsiglia infine fu facile trasferirsi a Genova. Nel 1690 un certo Giobatta De Giorgiis, armeno (anche se il cognome farebbe pensare alla vicina Georgia + ch’all’Armenia) si mise su una tessitura di mèzzari a Genova. Rapidamente la produzione si diffuse in città, specie per iniziativa della famiglia Speich, svizzera, che impiantò tessiture fra Cornigliano e Sampierdarena, seguiti da altri, e insomma, dal 1787 a metà Ottocento il mèzzaro genovese tirava. L'”albero della vita” e la sua corte di animali, fiori, figure umane, navi, minareti, tutti dipinti a tinte vivaci, erano stampati secondo una tecnica anch’essa di origine indiana con matrici di legno e mordenti vegetali o minerali, diversi per ogni colore.

Per vederli bene bisogna appenderli a un muro come se fossero arazzi, ed è così che la mostra fa, mentre l’uso odierno di usarli come copridivano impedisce il corretto godimento del motivo stampato.

Oggi dubito che qualche fanciulla di buona famiglia indossi il vecchio mèzzaro della nonna quando si sposa, ma chi ne ha in casa se li custodisca con cura, perché sono opere d’arte – anzi “vere e proprie” opere d’arte, come dicono con espressione trita e abusata i giornalisti.

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