La settimana dopo l’alluvione (la Tempesta Alex) del 2 ottobre 2020 che ha fatto assai sconquassi nelle valli delle Alpi Liguri, andai a Ormea a dare un’occhiata al paese e alle cose di famiglia. Non abbiamo né casa né terreni a ridosso del fiume Tanaro quindi non ci sono stati danni nelle cose Dall’Aglio tranne il fatto che questa volta il fiume è salito tanto da inondare il cimitero del paese. Il cimitero “nuovo”, giacché il cimitero vecchio, più piccolo e totalmente dismesso da una quarantina d’anni, si trovava un pochino più distante dal fiume e nemmeno questa volta le tumultuose acque alluvionali lo hanno raggiunto. Chissà se fu per caso o per atavica saggezza che i vecchi ormeesi ebbero costruito il loro antico cimitero lì, a monte della ferrovia, invece che accanto al fiume dove è stato sistemato il cimitero nuovo. Non lo so.

Fattostà che quel pernicioso 2 ottobre il Tanaro invase il cimitero nuovo con circa mezzo metro di acqua terrosa coprendo le tombe nel campo centrale ed entrando sicuro e senza bussare (come la primavera secondo De Andrè) nelle tombe di famiglia allineate ai margini dell’area. Poi si ritirò, lasciando strisce marroni sulle lapidi verticali e un morbido strato di quindici centimetri di fango chiaro sui pavimenti e sulle tombe a terreno. Andai tre volte a Ormea nelle settimane successive a spalar fango e pulire le lapidi di mio padre e del bisnonno materno che curiosamente portavano lo stesso insolito nome, Tito, e che nella tomba stanno in basso uno di fronte all’altro. Mio padre l’aveva detto e ripetuto che avrebbe voluto essere sepolto di fronte al suo omonimo, e così facemmo, undici anni fa. Un po’ di fango ciascuno non fa male a nessuno.

Il primo dei miei tre giorni di sfangaggio mi accorsi che in un bidone dei rifiuti qualcuno aveva gettato due piantine che non mi sembravano poi così distrutte: un geranio a fiori rossi e un ciclamino. Erano coperti di fango ma non avevano l’aria del tutto sconquassata. Insomma, le ho viste e le ho prese; le ho lavate e appena ripulite dalla melma che le soffocava si sono rivelate in decenti condizioni, quasi belle. Mi hanno ricordato Calimero pulcino nero, “Calimero tu non sei nero, sei solo sporco” “Eh Ava, come lava!!!” che l’olandesina della Mira Lanza, lavandolo, da nero lo aveva fatto diventare bianco. Tralasciando il velato razzismo forse presente in quel Carosello degli anni Sessanta, il punto è che quelle due banali piantine piccoloborghesi avevano bisogno solo di un po’ di attenzione per sfuggire al loro triste destino di rifiuto organico e tornare alla vita. E il caso (Caso?…il solito dilemma di sempre) ha voluto che io passassi al momento giusto per salvarle da morte fangosa e precoce.

Le ho portate a Sanremo, le ho messe in due vasi nuovi, e da ottobre 2020 a oggi, fine giugno 2021, il geranio non ha mai smesso di fiorire, tanti fiori sempre, seccano i vecchi e ne spuntano di nuovi. Il ciclamino idem fino ai primi di maggio, poi basta perché d’estate i ciclamini per bene non fioriscono, vanno in riposo, adesso ha solo le foglie. Io sono naturaliter portato a interpretare in chiave anche psicologica i fenomeni della vita biologica, tanto per gli esseri umani quanto per gli animali e le piante e mi piace pensare che ‘ste fioriture continue e ripetute siano un messaggio che queste due piante hanno voluto mandare al mondo e a me: un messaggio di gioia di vivere gridato al mondo e al giardino-giungla in cui sono state portate, un messaggio di gratitudine a me che le ho salvate da una morte inutile. Magari non è vero niente ma mi piace pensare che sia così.

Le fioriture del geranio Calimero e del suo amico ciclamino (a cui non ho dato un nome, spero non si sia offeso…) sono solo due tra i tanti spunti di riflessione che ogni tanto il mondo mi propone sull’annosa questione della vita-oltre-la-vita. Le solite elucubrazioni che ogni tanto faccio e divulgo, niente di nuovo, scusate. Pochi giorni fa sono andato a un funerale a Sanremo. L’officiante era il vescovo, ché il defunto era stato un personaggio celebre della città, e ha fatto la predica dicendo più o meno le solite cose che si dicono a tutti i funerali, la vita eterna, non si muore davvero perché l’anima, e Dio, e Gesù ha vinto la morte e tutte quelle robe lì, e che bello che siamo immortali anche se a prima vista non sembrerebbe. E ascoltando sti concetti – permettetemi – triti e ritriti, pensavo le cose che ormai da molto tempo penso sempre in queste occasioni, cioè che su Dio non ho dubbi ma su ‘sta faccenda della vita eterna mah…. Ma davvero l’idea che l’universo possa fare a meno di noi ci spaventa tanto da doverci aggrappare alla vita eterna per non dover ammettere che non siamo poi così indispensabili? O forse siamo tutti gelosi di quelli che vivranno dopo di noi? Beh, i pronipoti si godranno le gioie di questa valle di lacrime ma noi saremo in Paradiso, vuoi mettere che figata, eh? Bah, più ci penso e meno trovo indispensabile tutta la faccenda.

Io sono strafelice di essere vivo, ringrazio Dio fin dal più profondo della mia anima per la vita che mi ha dato e continua a darmi (speriamo il più a lungo e più sanamente possibile). Sono felice tanto quanto lo è il geranio Calimero, capisco benissimo il suo stato d’animo geranioso e – come ho già detto ripetuamente parlando dei miei gatti – non mi sentirei deluso e irritato se un giorno arrivasse Dio a dirmi “caro Gianni, tieni presente che alla fine delle vostre vite biologiche tu e Calimero avrete lo stesso destino, io non faccio preferenze tra coloro a cui ho dato la vita, quindi memento pulvis es et in pulverem reverteris”. Poi, al mio funerale, il prete dica pure quello che preferisce, tanto parlerà per i vivi presenti in chiesa, basta che siano contenti loro.

Adesso vado a bagnare il giardino, prima che tramonti il sole, e auguro la buonanotte a Calimero e ai suoi amici.

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