Deva: in sanscrito significa Dio, divinità, analogo al “Deus” e al “divinus” latini. Più esattamente “colui/ciò che emana luce” (leggo su Wikipedia, vogliate scusarmi, per approfondire le mie vaghe conoscenze di sanscrito).

A Mioglia, paese delle Langhe Savonesi al confine col Piemonte, Deva è una bambina di poco più di due mesi d’età. La sua mamma si chiama Daniela. Il papà non c’è ma poco importa. Non è stato proprio “Annunciazione Annunciazione, tu Marì Marì” come Troisi e Lello Arena, ma forse poco diverso. Non ha importanza, o se ne ha lo si vedrà in seguito.

Daniela G, quasi 37 anni, la conosco da una ventina d’anni, la prima volta che la incontrai era una ragazzina bionda (carina, indubbiamente) vestita da Calamity Jane con due ragazzotti e qualche cavallo al seguito, mentre io giravo la Liguria per qualche lavoro turistico. Non ne persi i contatti; una ragazza bella, simpatica e non banale per modo di ragionare e di avere sogni-speranze per la sua vita, per la quale sembrava che i cavalli fossero la principale ragione della sua esistenza, insieme ad altre cose tutte strettamente legate alla natura.

Non più di due-tre rapidi incontri all’anno, mi veniva comodissimo passare a salutarla a Varazze, nel negozio degli amaretti Virginia di Sassello dove lavorava, una tappa di una mezz’oretta nel mio andirivieni tra Genova e Sanremo, quattro chiacchiere di reciproci aggiornamenti, qualche considerazione esistenziale e via.

Poi è diventata mamma.

Diventata mamma perché l’Universo/Provvidenza ha deciso così. Diventata mamma perché Deva voleva fortemente nascere e aveva voglia di trovare una mamma seria, intelligente e non banale. Diventata mamma perché in giro per (già, per dove esattamente? Dove stanno le anime in attesa di incarnarsi in un feto umano?) in giro per la parte metafisica del Cosmo c’era un’anima che aveva urgente desiderio e bisogno di scendere sulla terra, e non aveva tempo da perdere con tutte quelle manfrine, aspettare che si formasse una coppia stabile, magari anche che trovasse una casa nuova, il nido d’amore, il lavoro sicuro per entrambi… Le urgeva una donna che sapesse accettare il non pensato, il non cercato, il non voluto e sapesse fare di un antipatico incidente di percorso una ragione di gioia e di bellezza. Di donne così ce ne sono parecchie in giro, lo so, però quell’anima – per ragioni sue che forse un giorno renderà esplicite, forse no – ha scelto Daniela di Mioglia come donna “giusta” per aiutarla a venire nel mondo.

Il nome della bambina, Deva, l’avrà scelto mamma Daniela da sola o sarà stato in qualche modo ispirato da quell’anima che voleva assolutamente venire alla vita? Comunque mi piace, un nome bello dal punto di vista eufonico e bello dal punto di vista spirituale, metafisico.

Mi raccontava Daniela che Deva ha voluto molto fortemente nascere perché lei ha fatto tutto quanto le era possibile per complicarsi la gravidanza; non volontariamente, lo ha fatto per disattenzione, per superficialità forse, per eccesso di serenità, per boh; lavorare e continuare a montare i suoi cavalli fino agli ultimi mesi. Ma Deva è nata lo stesso, bella e sana e serena. E la sua mamma è palesemente innamorata di lei.

Insomma, qualcuno (la Provvidenza/Universo, o “semplicemente” l’anima di Deva) ha deciso che questa nascita s’avesse da fare; indipendentemente da quello che avrebbero potuto pensare la madre e il padre prescelti, Deva doveva nascere. Il padre si è ritirato ma la madre ha capito, ha risposto alla chiamata che l’Universo le ha rivolto mentre lei pensava a tutt’altro. Come diceva John Lennon “la vita è quella cosa che ti succede mentre tu sei impegnato a fare altri progetti”.

E Deva è nata.

A posteriori potrei dire che per quel poco che conosco Daniela mi sarei stupito se avesse rifiutato la chiamata, se si fosse arresa alla semplicità del quieto vivere; comunque mi fa piacere aver constatato la luce che usciva dai suoi occhi e dal suo sorriso quel pomeriggio di metà luglio quando sono andato a Mioglia a fare il re magio per vedere la creatura.

Deva dovrà imparare a montare i cavalli appena possibile, anche prima di camminare, come i bambini degli allevatori nomadi della Mongolia. Se assomiglia almeno un po’ a sua madre (e le auguro di assomigliarle parecchio) imparerà in fretta.

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