Ho già scritto altre volte, e se non morirò domattina son certo che scriverò ancora, che una delle molteplici ragioni del fascino di Genova sta nella commistione indistricabile fra luoghi di differentissima struttura urbanistica e nella estrema varietà di paesaggi. Complice l’intricata orografia cittadina, in questa città si mescolano in disordine e a strettissimo contatto reciproco luoghi che apparentemente non hanno nulla a che fare l’un con l’altro. Ed è tutto la stessa Genova.

La collina di Coronata è un fulgido esempio di ciò che affermo.

Coronata è nota a Zena e in Liguria per il suo vino bianco, oggi etichettato sotto la DOC Val Polcevera ma in saecula saeculorum scarso di etichette nobilitanti benché onusto di gloria ostereccia, il tipico vinello bianco da bersi nelle merende campagnuole a base di fave, salame e pecorino sardo o sotto i pergolati che ombreggiano i campi da bocce, mentre portuali in pensione e contadini bianchi per antico pelo vanno a punto. Sapeva di zolfo, un tempo, il Coronata, e si disquisisce se fosse per la cattiva conservazione in botti scalcagnate o se per via dei fumi all’anidride solforosa che salivano dalle acciaierie dell’Italsider della sottostante Cornigliano. Poi si sa che col tempo i difetti vengono “fissati” e diventano caratteristiche peculiari del prodotto, quindi pregi. E un vino in fondo modesto diventa un vino tipico e viene venduto a caro prezzo nei negozi specializzati.
Peraltro in Liguria il Coronata non è l’unico, il Buzzetto di Quiliano docet: a detta dei quilianesi, che pur lo producono, il vero Buzzetto, quello puro, è uno schifo, ma vallo a comperare nelle enoteche…

Un po’ come le famiglie nobili, che all’inizio erano razziatori barbari o briganti di strada e coi bottini rapinati e coi saccheggi si sono creati la nobiltà di lignaggio. Chissà gli antenati di tutti quei Gio.Qualcuno Doria o Balbi o Spinola che stanno dipinti nei quadroni della mostra su Rubens a Palazzo Ducale, chissà i primi antenati di tutta quella bella gente che razza di manigoldi erano…

Torniamo a Coronata:

Coronata è ancora collina di campi, di vigneti, di serre di basilico, e ciò tanto stupisce quanto più sai che tutt’intorno ci sono caselli autostradali, l’aeroporto, capannoni industriali, le moribonde acciaierie, condomini popolari, la strada per la discarica comunale, insomma, quasi tutte le possibili fetecchie di una grande città.

Però se giri ‘sta collina nel corso di un birrino itinerante serale ne godi il fresco, il possente gracidar di rane, le lùcciole che lùcciolano, i rovi spessissimi ancora privi di more (peccato), lo stormir di fronde, l’odore verde della campagna estiva.
Se percorri la diserta via Purgatorio sul far del crepuscolo solstiziale quasi dimentichi tutte le fetecchie urbane anziddette, ché sei in fondo a una valletta e non senti né vedi indizio o suono di metropoli; se percorri invece via Rocche di Coronata (scendendo dal cimitero di Coronata in via Monte Guano) o salita San Giovanni Apostolo (salendo dalla tardonovecentesca via dei Sessanta), ti godi le stesse cose ma mescolate alle luci arancioni del casello A10 di Genova Aeroporto che sta proprio lì sotto, al rumore dei camion che entrano col telepass, al traffico che corre sull’autostrada, traffico incurante e ignaro di due pisquani (i soliti Uge ed io) che prima di farsi una birretta e una cocacola scarpinano nottetempo nella boscaglia cittadina chiacchierando di belinate sparse.

In via Rocche di Coronata, a precipizio sul casello autostradale, c’è un maniero, un edificio possente e cadente, che pare quello dell’Innominato. Inquietante, a dire il vero. Anche perché da lì in giù la via si fa sentiero maltenuto, e non guasterebbe incontravi fantasmi e oscure presenze. Uge mi ha scritto ieri un suo commento in merito, e qui lo riporto pari pari:

“confermo anzitutto che il baraccone di Via Rocche di Coronata ricorda vagamente, mutatis mutandis, il castello di Verres oppure il forte di Exilles con i quali ha in comune la posizione arroccata su un bastione roccioso: ma rispetto agli altri questo spicca in modo particolare perché il contesto nel quale è inserito è di mezza collina e all’infuori di esso nulla richiama la montagna. Dunque un elemento naturalistico spurio, se vogliamo. Segnalo poi il forte contrasto tra la tecnologia dello svincolo autostradale e della collina di Erzelli (gallerie, ponti e viadotti) con l’ambiente silvopastorale, quasi bucolico, di Via Rocche di Coronata…”

Poi c’è passo Mattia Speich: una diramazione a fondo cieco di salita San Giovanni Apostolo, alta su uno dei crinali che separano le varie vallette di questa amena collina. Mattia Speich, se non erro troppo, era un membro di una famiglia di industriali svizzeri che nel Settecento impiantò a Cornigliano (quindi lì sotto a Coronata) una manifattura di mèzzari, tessuti disegnati di origine indiana che a Genova divennero un elemento di corredo nuziale e di arredamento di notevole importanza.
Lascio ancora la parola a Uge:

“qualcosa bisogna pur dire a proposito di Passo Mattia Speich: credo di non avere trovato nulla di analogo nelle nostre camminate nelle crose. Inizio scuro e angusto, coperto dalla vegetazione, e fors’anche inquietante che introduce in una valletta più ampia e dolce, aperta alla luce del giorno (simile in questo a Elva – in val Maira – dove la strada del vallone non lascia immaginare prati e altopiani che di lì a poco si schiuderanno). Il primo riferimento che mi sovviene è quasi scontato alla metafora della parabola della via stretta che porta al paradiso, in contrasto con quella larga e comoda che mena alla perdizione: un luogo dello spirito”

Questo dice Uge, e sottoscrivo. A parte la luce del giorno di passo Speich, che avendolo noi percorso alle 22 di sera era più notturno che diurno. Ma la si immagina…
Sembra di infilarsi in un covo di cinghali e ratti, imboccando con qualche esitazione passo Mattia Speich; ma poi diventa arioso, aperto, si cammina sotto un filare di alberi come nei viali delle grandi ville, intorno campi, una casa in fondo.. ci siam fermati prima per timore di cani da guardia e schioppettate benché sembrasse chiusa e vuota. Era un contesto idilliaco, inatteso. Bello, ecco. Da tornarci, magari con la luna.
E’ veramente un luogo dello spirito, uno di quei posti dove ti aspetti che passi una tempesta di lampi e tuoni, poi un terremoto che squassa la terra, poi un fuoco che devasta, poi un venticello fresco e leggero, ed ecco, Dio è in quel vento leggero.

Due commenti a conclusione:
1) via dei Sessanta, da cui si accede a salita San Giovanni Apostolo: chi sono ‘sti Sessanta? Conosciamo i Settanta (gli ebrei di Alessandria d’Egitto che tradussero la Bibbia in greco), i Mille (di Garibaldi), i Trecento (eran giovani e forti, e sono morti…), i Dodici (Apostoli), gli Otto (fan G di nome)… ma i Sessanta? Saran buoni per il lotto?

2)a valle di Coronata, nel cuore della Cornigliano ex-operaia e quasi ex-industriale, c’è un vicolo stretto fra due palazzi popolari di fine Ottocento e chiuso in fondo dal muraglione della ferrovia per Ventimiglia. Oltre la ferrovia c’è l’acciaieria. Il vicolo, corto e angusto, si chiama Vico della Spiaggia. Fa tenerezza pensare che lì, temporibus illis, ci fosse una spiaggia. C’era, son certo che c’era. Ci andava mio padre (che non è coetaneo di Carlomagno) a fare il bagno, da quelle parti.

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