“Codamozza se n’è andato in punta di piedi com’era arrivato”

Donatella ha scritto così in un sms che venerdì scorso, il 9 novembre, ha mandato a un po’ di amici per annunciare che il più vecchio dei nostri tre gatti era morto.

Era un giorno di nove anni fa, più o meno l’autunno del 2003; uno dei brevi periodi in cui la casa e il giardino di villa Mergellina a Sanremo erano abitati da un solo animale domestico, la gatta Musetto, bellissima micia tricolore che allora aveva circa 8 anni. Un bel dì – un mattino, una sera, questo non lo ricordo – sulla porta di casa apparve un bel gatto maschio, un giovane soriano con un moncherino di coda tagliata, un miagolio sommamente sgraziato e due occhi chiari dallo sguardo ammaliante. Non ricordo ogni dettaglio dell’evento ma sono certo che entrò in casa con la disinvoltura dell’animale non randagio bensì già aduso ad avere a che fare con gli umani e le loro abitazioni; noi facemmo ciò che Abramo e sua moglie Sara fecero con i tre angeli che erano andati a far loro visita, ovvero ciò che ogni famiglia per bene dovrebbe fare quando un ospite bussa alla porta: gli offrimmo del cibo e dell’acqua. Ciò piacque al gatto, che decise che da quel giorno questa sarebbe stata la sua dimora. Vista la brevità della sua appendice caudale – ridotta così da chissà quale evento traumatico o chirurgico – fu facile per noi battezzarlo Codamozza.

Bello, era bello.
Era un molto bel gatto, maschio, giovane e sano, ma ciò che lo rendeva magnifico dal punto di vista estetico erano gli occhi, o meglio lo sguardo. Già nel 2004 scrissi di “Codamozza bel tenebroso”
(https://www.giannidallaglio.it/scritti_dettaglio.asp?quale=44) e cito solo alcune parole di allora: “Codamozza è un bel tenebroso. Tanto sgradevole all’udito ha il miagolio, tanto belli ha gli occhi. Verdolino chiaro come mille altri gatti, niente di speciale. Due banali, comunissimi, occhi verdi. Ma lo sguardo. Arriva dal fondo del giardino a testa appena abbassata, con l’andatura dinoccolata da dandy, e ti lancia delle occhiate da figo, ma non da fighetto idiota che si sente bello solo perché è ricco. Da figo esperto. Lui ti guarda alla Humphrey Bogart di Casablanca, ha lo sguardo di chi ha molto vissuto e molto ha visto. Lo sguardo di chi conosce la vita, e sa che a fronte di attimi di felicità ci sono ere geologiche di tristezza, ma vivere è la cosa più bella anche così”

Non credo che oggi userei le medesime parole per esprimere lo stesso concetto ma ciò poco importa. Sta di fatto che lo sguardo di Codamozza fu certamente uno dei motivi per cui mi affezionai a lui. E anche Donatella fu colpita da questi occhi così intensi, così pieni di anima, se si capisce cosa cerco di dire. Occhi e sguardo in qualche modo umani, ammesso che gli occhi e l’anima di un Homo sapiens debbano essere per forza superiori a quelli di un “semplice” Felis catus. C’è una foto che io trovo stupenda ed emblematica nel rappresentare Codamozza sia nel suo aspetto esteriore sia nel suo “animo” che traspare dallo sguardo; gliela scattò Donatella in giardino, lui sta camminando verso di lei, ha la testa leggermente inclinata e una zampa alzata che sta muovendo un passo e guarda verso l’obiettivo.

Il modo di guardare di Codino aveva un’altra caratteristica che mi affascinava: raramente guardava direttamente negli occhi. Sparisci (che ora è rimasta in casa da sola e si sente spaesata) e prima di lei Musetto ma anche Oscar (che da vero randagio tenta timide esplorazioni casalinghe ma si fida ancora molto poco) se hanno-avevano qualcosa da dirci ci guardano dritti in faccia, come fanno i bambini, i cani, come credo facciano tutti coloro, di qualunque età e qualunque specie animale, che chiedono qualcosa, che sia affetto, cibo, carezze, la porta aperta per poter uscire, il camino acceso… Persino Merlino mi guardava negli occhi quando chiedeva i croccantini (a proposito: anche Merlino non c’è più, ha finito di volare e mangiar croccantini poco tempo dopo che io avevo scritto di lui. Però ora c’è un altro merlo maschio, nero e lucido, che sta imparando a farsi lanciare sti croccantini evidentemente squisitissimi, anche se è ancora poco disinvolto. Ma col tempo…)

Invece Codamozza raramente guardava l’interlocutore dritto negli occhi; il suo sguardo generalmente andava oltre la realtà immediatamente percepibile, anche se essa consisteva in chi gli stava dando da mangiare o lo accarezzava mentre faceva sommesse fusa sdraiato sul letto. Non so se Dona abbia mai percepito questa sensazione che provavo io, sta di fatto che in Codamozza io spesso vedevo un essere che fisicamente era lì col corpo ma attraverso il suo sguardo lasciava intendere che la sua mente stava vagando in chissà quali spazi emotivi e spirituali. Spazi dove non mi vergogno a dire che avrei pagato per poter andare anch’io. Andare con lui per poter capire cosa passasse per la mente di quel mio, nostro compagno di viaggio su questa terra.

Per parecchi anni il concetto di “dimora” per Codamozza fu qualcosa di molto diverso da ciò che intende un europeo adulto borghese: diciamo che spesso il suo comportamento si addiceva alla classica battuta che spesso le madri degli adolescenti rivolgono invano ai loro figli “questa casa non è un albergo!”. Nel senso che per lui spesso lo era, un albergo: tutte le notti fuori, nei periodi di fregola magari anche due o tre giorni senza farsi vedere o al massimo veniva a casa per mangiare di fretta e scomparire di nuovo, e chissà dove andava, a corteggiare quali gatte e a fare a botte con chissà quali gatti: ricordo una rissa furibonda e rumorosa con un gattone bianco venito da chissà dove, alla fine del trambusto quello se n’è scappato a gambe levate e lui dietro a inseguirlo…

Ricordo anche una sera d’inverno, io ero arrivato in treno da Genova e percorrevo a piedi il breve tratto di Corso Cavallotti fra la stazione e la casa e te lo vedo lì, sul marciapiede che se ne va con calma fra la gente; Codamozza! gli dico, lui mi guarda, fa miao senza scomporsi, forse mi ha chiesto “e tu che ci fai qui”… L’ho accompagnato per un pezzetto di strada, poi lui ha deviato giù lungo la stradina accanto al commissariato di polizia e l’ho lasciato andare nel buio, tanto lì era fuori dal traffico, ed è sparito nella notte.

Certo, siccome ai gatti piace dormire, quando era il momento della nanna… sulle panchine del giardino o in casa in ogni luogo e posizione possibile a un gatto, e tante foto lo testimoniano.

Dal giormo del suo arrivo è sempre stato elegantemente innamorato di Musetto, gatta di gran classe e bellezza, che però era sterilizzata quindi non capiva e non apprezzava troppo le profferte galanti del bello straniero. Musetto nel 2009 finì il suo cammino terreno ma alla fine del 2006 era arrivata Sparisci e ci furono settimane se non mesi di grandi passioni amorose e sessuali con ‘sta gattina (allora era una gattina, ora è una cicciona vergognosa) che potrebbe anche essere sua figlia; poi è comparso Oscar, sulla scia dei feromoni di Sparisci, e sono iniziati gli screzi fra i due maschi.

Che insomma, Codino iniziava a invecchiare e quando iniziammo a vederlo tornare a casa con graffi sul muso pensammo che era ora di castrarlo, che per la sua salute doveva smettere di andarsene in giro chissà dove a fare a cazzotti con gli altri maschi. Diventar cappone lo rese meno vagabondo ma un po’ di giri continuò a farseli, anche se imparò quanto poteva essere bello starsene a dormire in casa la notte – magari sul letto “fra mamma e papà” – specie se è inverno e fuori fa freddo o piove. L’avanzare dell’età gli portò gli acciacchi tipici dei gatti anziani ma conviveva bene sia con le disfunzioni renali che lo facevano bere molto sia con la fiv o come si chiama la cosiddetta aids felina, tipica dei maschi combattenti, che non gli diede problemi evidenti.

Insomma, sembrava avviato a una serena vecchiaia fra casa, giardino e qualche vagabondaggio nel giardino dei vicini di sotto e intorno alla piscina del Mediterranèe, una vecchiaia da trascorrere in compagnia della sua amica ex-amante Sparisci e dell’amico-nemico Oscar… invece verso la fine di ottobre Donatella si accorse che mangiava poco, era inappetente come era successo solo altre poche volte, quando non stava bene; ma non aveva segni o sintomi di guai fisici; poi intorno ai Santi ci accorgemmo che la sua pancia cresceva un poco, sino a diventare in due o tre giorni grossa come se fosse incinto. Ci volle poco a capire, e la visita della veterinaria (quell’angelo di veterinaria Federica B) confermò i timori: un tumore in rapida crescita che gli comprimeva gli organi interni. Nessuna speranza, senza giri di parole. Ha trascorso gli ultimi giorni su uno o l’altro tappeto, in casa o in giardino, spostandosi ogni tanto da uno all’altro, senza voler cibo né quasi acqua. Venerdì 9, dopo meno di una settimana di questa vita, abbiamo chiamato la veterinaria per l’ormai inevitabile eutanasia. Ora è sepolto in giardino fra l’iperico e le feijoa, vicino a Musetto.

In punta di piedi… si, era arrivato presentandosi con eleganza e gentilezza, anche con una certa sicurezza di sè ma una sicurezza di estrema signorilità; se n’è andato in silenzio, senza lamentarsi, addormentandosi in quel giardino che per nove anni, per soltanto nove anni, è stato la capitale del suo piccolo-vasto regno. Quanti anni è vissuto Codamozza? Non lo sappiamo. Quando arrivò da noi era un giovane adulto, poteva avere due anni come quattro, diciamo che si è goduto il mondo per almeno undici ma forse anche dodici o tredici anni. Avrebbe potuto fare di più, senza il cancro. Ma bene disse Gesù “vegliate perché non sapete il giorno né l’ora”, e poco importa che siamo uomini o gatti o abeti o batteri…

La foto fattagli da Donatella in giardino è la più bella fra le tante che gli abbiamo scattato, ma ce n’è un’altra che mi piace allo stesso modo: la feci io un giorno d’inverno dalla finestra della cucina mentre lui era nel centro della grande piscina del Mediterranèe vuota. Un esserino piccino nel mezzo di un nulla azzurro, nei fatti un gatto in un grosso catino di cemento vuoto, nello spirito una metafora di ciò che siamo tutti, gatti, uomini eccetera, esserini piccini nella vastità dell’universo.

Abbiamo amato molto questo esserino, sia Dona che io, pur avendo avuto entrambi molti animali domestici nelle nostre vite, e altri ne abbiamo e ne avremo. Io so da tempo che Codamozza è stato fra tutti quello a cui ho voluto più bene. Li ricordo tutti, i miei “pets”; i primi furono i tre pesci rossi Armadillo, Pangolino e Bartolino Smith, cui seguì la Chicchina, una canarina gialla e beige dall’incerto status sessuale, gay o trans, a cui invano affiancammo 4 o 5 aspiranti mariti (uno dopo l’altro, come le mogli di Enrico VIII e solo l’ultimo, tutto verde, le sopravvisse). Venne poi Giobatta detto Giobbi, criceto grassoccio e a suo modo molto simpatico, indi Leslie (Lelina), barboncina nana nera che visse in famiglia felicemente per 15 anni, trascorsi parzialmente insieme a Minou, gatta soriana salvata da mia sorella quand’era molto piccola, che morì quasi diciottenne proprio il giorno in cui io iniziavo la storia con Donatella (e i suoi gatti che allora erano Musetto, Bimbo e il Nero).

Ricordo tutti con affetto ma Codamozza per me è stato speciale e credo che ciò dipenda non solo da quel suo modo di guardare “attraverso le cose concrete verso un livello più profondo di realtà” che gli attribuivo, ma anche dall’aver incarnato al meglio secondo me l’idea platonica della gattità. Io amo moltissimo i gatti come specie animale, e non è solo per l’estrema bellezza estetica dei felini ma per il loro modo di essere e di interagire con gli umani.
Fra le tante frasi celebri sui gatti una delle migliori è “non si può possedere un gatto; al massimo si è soci alla pari”. Questo profondo, convinto senso di uguaglianza-nella-differenza che i gatti possiedono e manifestano nei rapporti con noi è ciò che più mi affascina di loro. Ciò che noi uomini potremmo, dovremmo saper essere nei nostri reciproci rapporti e purtroppo non sappiamo essere. Ciò che a me piace essere ed essere considerato, o almeno mi piacerebbe poter essere ed essere considerato nel consesso umano, uguale fra uguali ciascuno diverso dagli altri. Non se se si capisce cosa intendo dire, spero di si.

I cani non cercano un rapporto alla pari coi loro padroni, i cani desiderano essere subalterni, cercano un capo branco, vogliono ubbidire.
I gatti no, loro desiderano condividere coi loro soci umani le reciproche libertà. Almeno i gatti fieri di essere tali ragionano così.
E Codamozza era un gatto fiero di essere tale e si comportava così. Per me è stato il gatto più “gatto” che ho conosciuto e sono sicuro che è per questo che l’ho amato tanto.

C’è una canzone poco nota di Roberto Vecchioni: si chiama Paco, è nell’album Blumùn del 1993; è una ninnananna dedicata al suo cane Paco ormai morto ed è la più commovente dichiarazione d’amore verso un animale che conosco. Giusto per rendere merito a chi è moooooolto più bravo di me a scrivere di queste cose.

E così ora in famiglia ci sono solo Sparisci e Oscar, anche se abbiamo già detto loro che prima o poi faremo arrivare un fratellino piccolo piccolo quando qualche gattile ne avrà uno abbandonato da adottare.

Anzi no, in famiglia ci sono sempre in qualche modo anche gli altri, a partire dai tanti cani e gatti che vissero nella casa e nel giardino di Villa Mergellina quando Donatella era ragazza e che io non conobbi sino a Musetto e a Codamozza detto Codino, e tutti corrono e giocano insieme e se ne vanno a spasso invisibili per il giardino two by two into the foggy dew, per dirla come Bob Dylan.

(Scritto il 14 novembre 2012)

 

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