Il riscatto del corpo di Ettore e la grande caccia africana

Rivista: La Casana
Editore: Carige
Luogo di pubblicazione: Genova
Data: 2012, anno LIV, n°4
(pubblicato sotto psuedonimo)

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Descrizione

«Dottore venga, abbiamo trovato qualcosa in un rudere sul Tellaro». Molte sono le frasi celebri che caratterizzano momenti “forti” della storia umana e assurgono a simbolo di episodi, personaggi, eventi memorabili: “il dado è tratto”, “dall’alto di queste piramidi 40 secoli vi guardano”, “qui si fa l’Italia o si muore”… La nostra vicenda inizia con questa frase decisamente priva di qualsiasi velleità retorica, pronunciata da un capitano della Guardia di Finanza nell’estate del 1971 e rivolta a Giuseppe Voza, della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Siracusa. Le Fiamme Gialle sapevano che alcuni scavatori di frodo si aggiravano in una masseria abbandonata a sud di Noto, fra i limoneti, gli oliveti e i mandorleti di questo lembo di Sicilia sudorientale, la cui natura è stata decantata da molti animi sensibili al bello, come il poeta Virgilio(1) o l’erudito cinquecentesco Tommaso Fazello(2). I finanzieri videro che nella stalla dell’abbandonata masseria affiorava un frammento di mosaico a colori con scene di un banchetto, ripulito dai cacciatori di reperti che probabilmente avevano intenzione di strapparlo.
Ogni storia ha la sua preistoria e la nostra non fa eccezione: il torrente Tellaro anticamente si chiamava Hèloros e diede il nome alla città greca di Eloro (Έλωρος), avamposto meridionale di Siracusa, abitata già nell’VIII secolo a.C. e i cui resti sono tutelati da un parco archeologico regionale; poco distante scorre il rio Randeci, di scarsa importanza idrografica. Nel 1961 un cultore di storia locale, Gaetano Pissarello, pubblicò una guida alla città di Noto in cui si leggeva: “La fattoria dei Vaddeddi è ubicata sulla riva destra del torrente Randeci… Presso il caseggiato…sono gli avanzi di splendidi mosaici che pavimentano una sontuosa villa romana del IV o III secolo d.C.” Informazioni non da poco, dunque, che però non bastarono a suscitare l’interesse di chi di dovere, visto che si dovette aspettare il 1971 e l’attività degli scavatori clandestini per far sì che gli archeologi ponessero la loro attenzione al sito. Sito che consiste di un doppio edificio con una doppia storia, perché sotto ci sono i resti di una grande residenza extraurbana della tarda età imperiale romana con pavimenti ricoperti da mosaici di meravigliosa raffinatezza di stile, e sopra c’è una masseria sette-ottocentesca edificata in pianta sfalsata rispetto alla villa – che quindi ne è stata ricoperta solo in parte – e cresciuta per addizione, ovvero composta da diversi corpi di fabbrica aggiunti man mano che se ne presentava la necessità. All’inizio degli scavi nel 1971 la masseria era in rovina ed è stata restaurata non solo per farne l’ingresso al sito museale della villa ma anche perché è una testimonianza di edificio rurale tipico di queste terre, da sempre produttrici di olio, vino, agrumi di eccellente qualità.
I lavori di scavo della villa furono lunghi e lenti, anche per l’estrema delicatezza richiesta nel pulire i mosaici, recuperare tutte le loro tessere, staccarli, portarli al restauro nei laboratori della Soprintendenza e infine risistemarli in loco. Senza dilungarci in troppi dettagli limitiamoci a riportare alcune parole dell’allora Sovrintendente Giuseppe Voza: “Per recuperarne alcune porzioni abbiamo tolto con un lavoro chirurgico parte delle fondazioni della masseria evitando di far crollare quel che resta… E viste le condizioni in cui si trovavano abbiamo dovuto tirare via i mosaici e portarli al laboratorio per il restauro. Avevo una tal paura di danneggiare le opere che feci montare una tenda nel cortile della fattoria dove far immediatamente fissare i mosaici sulle resine”. Staccare un mosaico è operazione delicatissima perché si rischia di scompaginare le tessere e distruggere le immagini: si posa un telo impregnato di uno speciale collante sulla superficie del mosaico, poi si stacca dal terreno il fondo su cui sono fissate le tessere ottenendo un “tappeto” che si arrotola intorno a un cilindro di legno per il trasporto. Dopo altre vicende, di quelle che eufemisticamente soglionsi definire “alterne”, finalmente il 15 marzo 2008 la villa coi suoi mosaici restaurati fu aperta alle visite del pubblico, 37 anni dopo la sua scoperta ufficiale.
È un edificio di 6000 metri quadrati, di cui circa 3000 scavati a tutt’oggi; il ritrovamento di alcune monete indicherebbe la seconda metà del IV secolo d.C. come periodo di costruzione; il corpo centrale era costituito da una corte – un peristilio – di 20 x 24 metri, circondata da un portico colonnato sul quale si affacciavano numerose stanze. L’edificio non ebbe vita lunghissima perché bruciò in un incendio, forse alla fine del IV secolo durante le incursioni dei Goti; quattordici secoli dopo, sulle macerie incenerite e abbandonate fu edificata la masseria.
La villa del Tellaro, insieme alla celeberrima Villa del Casale presso Piazza Armerina e a quella di Patti Marina, è un’importante testimonianza della presenza della classe senatoriale in Sicilia durante l’ultimo periodo dell’Impero Romano, in cui la Sicilia svolgeva un ruolo importante nel panorama economico e politico del Mediterraneo centrale: tutte e tre le ville si trovavano al centro di aree agricole produttive di cui probabilmente costituivano il centro amministrativo, forse autonomo rispetto ai non lontani centri urbani. Secondo gli storici queste ville testimoniano l’importanza del latifondo controllato dalle grandi famiglie romane rispetto alla piccola e media proprietà terriera.
Oltre al valore di documento storico-economico, la villa del Tellaro costituisce un tesoro dal punto di vista artistico per i suoi mosaici, di fattura ed eleganza pari a quelli di Piazza Armerina, anche se lo stile compositivo, la policromia, gli elementi decorativi, il vivo movimento delle scene fanno pensare anche alle dimore patrizie del Nord-Africa (come la Villa dei Laberii a Oudna in Tunisia), terra con cui gli scambi commerciali e culturali erano intensi e continui. I mosaici oggi visibili, realizzati con milioni di tessere in calcare e cotto dagli intensi colori naturali e dal disegno vivissimo, sono protetti da una “macchina espositiva”, ovvero una struttura realizzata dall’architetto catanese Giuseppe Pagnano che, senza confondersi coi resti della villa romana né con la masseria settecentesca, protegge le opere antiche e ne permette l’osservazione. Il portico sul lato nord del peristilio conserva un tratto di mosaico lungo circa 15 metri e largo 3,70 che raffigura un tappeto di festoni di alloro in forma di medaglioni circolari con ottagoni a lati curvi decorati da motivi geometrici; un disegno di eccezionale policromia secondo motivi piuttosto noti in ambiente africano e denominati “entrelacs de coussins”. Visti con occhi moderni fanno pensare alle opere dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher. Questo tratto di portico dà accesso a tre ambienti i cui pavimenti sono tappezzati con scene mitologiche, di caccia e di danze. La stanza più orientale conserva ampie tracce della rappresentazione del riscatto del corpo di Ettore ucciso da Achille e restituito al padre Priamo. Il mosaico non è intero perché su di esso sorgevano le fondamenta della masseria ma ciò che ne resta – anche grazie al lavoro di recupero svolto – è più che sufficiente a comprendere la trama della vicenda: “ostinato ritieni appo le navi d’Ettore il corpo, e al genitor nol rendi. Rendilo, e il prezzo del riscatto accetta”(3). Nell’Iliade però non compare l’episodio della pesatura, narrato invece nei “Frigi”, una tragedia di Eschilo andata perduta. Alcune scritte in greco indicano i personaggi: da una parte Odisseo (Ulisse), Achille con l’elmo piumato e Diomede. Al centro campeggia una bilancia con due piatti: uno porta gli ori del riscatto, l’altro il cadavere di Ettore. A destra ci sono i Troes, i troiani, ma il mosaico non integro mostra solo il volto dell’araldo Ideo e due lettere del nome di Priamo, coerenti coi versi omerici: “ il mesto veglio… e il suo fido araldo, entrambi pensierosi e muti”(4). Intorno alla scena corre una fascia decorativa con piante e animali fra cui una tigre che spicca un balzo, la cui tavolozza di colori la rendono più “dipinta” che tassellata, più simile a un affresco che a un mosaico, a dimostrazione della raffinatezza stilistica e dell’abilità tecnica degli ignoti artisti.
Il mosaico del secondo ambiente presenta una scena di caccia con un banchetto all’aria aperta e una figura femminile di grandi dimensioni; questa è la più ampia fra le stanze sinora portate alla luce, 6,40 x 6,20 metri. La battuta di caccia si svolge in vari capitoli tenuti insieme da elementi naturali quali rocce, vegetazione e acque. Vediamo i cacciatori che assistono all’ingresso delle fiere catturate nelle gabbie, un cavaliere che colpisce con la lancia un leone che ha appena ucciso una gazzella, il passaggio in una palude di un carro che trasporta belve catturate con la scorta di un cavaliere, servi e cani. Al centro spicca il viso di una figura femminile (danneggiata nella parte centrale) che guarda una tigre che assale un altro cacciatore; è opinione degli studiosi che si tratti di una personificazione dell’Africa, come nel mosaico della Grande Caccia a Piazza Armerina. Accanto a lei tre uomini indossano il paludamentum(5) dei funzionari imperiali e uno ha il bastone del comando in mano. La parte bassa del mosaico è occupata dai tre episodi del banchetto all‘aperto: c’è l’affaccendarsi dei servi che preparano le portate e le servono; ci sono sei commensali sotto una tenda e infine un gruppo di cavalli che si riposano sotto gli alberi.
Nel mosaico della terza stanza vi sono quattro vasi da cui traboccano fiori e frutta e festoni di alloro che si incontravano nel centro della stanza in una formella completamente perduta; essi delimitano quattro zone semicircolari contenenti altre scene come la danza erotica di un satiro e una menade dai volti sommamente espressivi, i cui movimenti sono resi grazie alla sapiente scelta cromatica delle tessere musive. Eccellente anche la cura con cui è stata realizzata la cornice esterna con un motivo a onda e a fiori di loto che presenta un interessante effetto tridimensionale.
È impossibile capire quale fosse la destinazione delle camere perché il fuoco ha cancellato quasi tutte le tracce della vita quotidiana, tranne alcune monete e poche ceramiche e attrezzi di lavoro. La Villa romana del Tellaro quindi ci parla attraverso i suoi mosaici ma non riesce a dirci tutto ciò che vorremmo sapere di lei; molto ancora ignoriamo della sua splendente ma breve e tragica storia.

Note
(1) Virgilio nel verso 698 del III canto dell’Eneide parla del praepingue solum stagnantis Helorum
(2) Tommaso Fazello, De Rebus Siculis decades duae, Palermo, 1558
(3) Omero, Iliade, XXIV, vv. 177-179; trad. Vincenzo Monti
(4) Omero, Iliade, XXIV, vv. 362-364; idem
(5) Il paludamentum era il mantello indossato dai generali romani quando comandavano un esercito, dai loro ufficiali principali e dai loro attendenti; era distinto dal sagum dei soldati e dalla toga considerata indumento di pace.

Ringraziamenti
A Lorenzo Guzzardi, Direttore del Parco Archeologico Eloro e Villa del Tellaro

Bibliografia
Giuseppe Voza, “I Mosaici del Tellaro“ Lusso e cultura nel Sud-Est della Sicilia, Erre Produzioni, Siracusa, 2003
Villa romana del Tellaro, guida al sito archeologico, Pachino (SR), s.d.

Sitologia
www.villaromanadeltellaro.com

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