La storia inizia nel secolo scorso, ventidue anni fa, nel 1995 (ho le foto…) quando con alcuni amici genovesi tutti più o meno ex scout decidemmo di farci un finesettimana di inizio estate in qualche rifugio nelle montagne cuneesi, tra quelle valli che soglionsi definire “occitane” (perché per cultura e tradizione in effetti lo sono) e che per me soprattutto sono “la Montagna”. Come l’Etna per i siciliani.

Sarà per eredità genetica da qualche antenato della linea materna, sarà per frequentazione estiva dai più remoti tempi della mia infanzia, sarà per i campi estivi con gli scout nei formativi anni dell’adolescenza e della prima gioventù, sarà perché così ha voluto il Fato, fatto sta che quando io penso alle montagne, desidero le montagne, cerco le montagne, io penso desidero cerco le montagne e le valli del Cuneese. Arrivo fino alla Val di Susa, via, perché imparai a conoscerla e apprezzarla negli anni degli scout, quindi diciamo che la mia Montagna inizia a sud con l’alta Val Tanaro di Ormea e Upega e termina a nord con la valle della Dora Riparia di Susa e Bardonecchia.

Val d’Aosta, Dolomiti, Gran Sasso, Karakorum, Ande si, bellissimi, ma le “mie” montagne sono quelle del Piemonte sud-occidentale.

Comunque, dopo aver girato diversi luoghi e rifugi negli anni, tutti posti piacevoli e interessanti, dieci anni fa, nel 2008, per un puro caso o perché la Provvidenza aveva deciso così arrivammo alla Locanda Lou Pitavin, in borgata Finello, comune di Marmora, in una valletta laterale della media Val Maira.

Trovai subito curioso il nome (che indica il picchio, elusivo uccello dei boschi) perché mia madre di cognome faceva Pittavino. Ma ciò ora poco importa. Importa il fatto che quest’anno, dal 30 giugno al 2 luglio, abbiamo festeggiato – in pochi purtroppo, solo in 6, ben meno dei 10-15 degli anni passati – il decennale della nostra ininterrotta amicizia con Lou Pitavin, amicizia con l’edificio (che nel tempo abbiamo visto crescere e arricchirsi), con i prati e le mucche e i boschi e i monti e le borgate circostanti, e con la famiglia “pitavina”, Marco e Valeria e i loro due figli arrivati nel frattempo, Margherita e Martino, e pazienza se quest’anno non c’erano più né cani né gatti. E amicizia, anche, con la loro ottima cucina occitana rivisitata, se posso definirla così.

Non sono qui per fare uno spot pubblicitario alla Locanda, se volete saperne di più nei dettagli andate a vedere il loro sito www.loupitavin.it. Sono qui perché mi sono reso conto che col tempo questo albergo-locanda-ristorante-rifugio è diventato per me – ma forse anche per altri tra i miei decennali compagni di pitavinate – un punto fisso del calendario della mia vita “di mezza età”. Dieci anni sono parecchi, qualcosa è successo in questo decennio, per il mondo ma anche per ciascuno di noi: nel 2008 nella mia famiglia c’erano ancora mio padre, mia madre, mia moglie più altri parenti di varia anzianità. Due dei “pitavini” storici allora non erano ancora sposati e quest’anno sono venuti accompagnati da una deliziosa bimba di 4 anni che poco importa che sia loro soltanto per affido e non per nascita ma in pratica erano proprio bella una famigliola. Giusto per fare un paio d’esempi.

Dieci anni che trascorriamo un finesettimana di inizio estate a Lou Pitavin: si arriva al venerdì tardo pomeriggio, si fanno due notti, due cene e due colazioni alla Locanda, si fa una gita più o meno montagnosa al sabato, qualcosina di più rapido la domenica mattina, poi tutti si torna giù nella calda Riviera Ligure, chi a Genova, chi a Sanremo e dintorni.

Credo che non sia facilissimo spiegare cosa c’è in quel posto che mi (anzi, ci) “costringe” a ritornarci di anno in anno, senza aver mai nemmeno immaginato la possibilità di “l’anno prossimo si cambia”. No, non si cambia, si torna lì, è ovvio. Perché comunque lì ci si sente (almeno, io mi sento) a casa; certo è una casa diversa da quelle solite, fosse solo per i 7 gradi del mattino del sabato sul prato della Locanda, ben diversi dai 24-26 delle stesse ore a Genova, e per lo scampanio delle mucche ben diverso dalle voci dei gabbiani che risuonano negli stessi momenti a Sanremo. Ma è casa. Per Marco e Valeria (appena intravista, dentro la sua indaffaratissima cucina), per le loro cene, per le rose rampicanti sui muri, per la fontana nel prato, per i geni occitani atavici che forse mi porto dentro, perché… Non so, ma so che ormai per me il Pitavin è diventato, come si dice, un “luogo dello spirito”? Bah, diciamo così. Un luogo “per lo spirito”, ecco, oltre che piacevole per il corpo. Un luogo dove trascorro meno di 48 ore all’anno ma che ormai, con dieci anni di onorato servizio alle spalle, è un luogo “del mio star bene” proprio come altri che conosco e frequento più sovente e da più tempo, la scogliera di Pontetto, il bosco di Prale, il giardino di Villa Mergellina a Sanremo. A prescindere dai ricordi, dalle presenze e dalle assenze che sono legate a ciascuno di questi luoghi.

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