Papà, mamma, nonni, fratello e sorella, sono concetti chiari da capire anche per un bimbo di pochi anni. Zio è già una cosa più vaga, ci può star dentro quasi di tutto.
Lo zio Mario – lo Ziomario – fu il mio padrino di cresima. Ai miei tempi si faceva un mese dopo la comunione, a otto anni. Lo ricordo affabile, affettuoso, alto, loquace, allegro. Sua moglie (chissà se era Ziaqualcuna, non ricordo) era più piccina, piuttosto nera, ma aveva una voce tosta pure lei, se la memoria non falla.
Lo Ziomario mi regalò un’enciclopedia per ragazzi della Utet, c’è ancora in qualche alto scaffale di libreria, servirà forse ai miei nipoti fra qualche anno.
Lo Ziomario abitava in una villetta al limitar dei boschi sopra Lanzo Torinese, e dentro la villa c’era una stupenda camera occupata da un grandioso magnifico plastico per i trenini. Di quelli che un ragazzino normale vede solo in sogno, con montagne, paesi, stazioni e strade, e ovviamente anche coi treni che andavano.
Un giorno capii che, essendo gli zii formalmente i fratelli dei genitori, essendo mia mamma figlia unica e avendo mio padre una sorella e un solo fratello, lo zio Gianfranco…. insomma, ‘sto Ziomario da dove belin usciva? Beh, a otto anni non dicevo ancora belin ma il concetto era quello.

Mario Codagnone era in realtà un molto amico di famiglia, senza legami di parentela. Calabrese, magistrato a Torino, oratore colto e facondo, di piacevolissima compagnia, oltre che amministrare la giustizia dipingeva e divenne pittore di discreta fama. Lo è ancora, essendo ancora vivo e – almeno l’ultima volta che lo vidi, due anni fa – assai vegeto. Accompagnato dalla seconda, più giovane, moglie.

Dello “zio” Mario Codagnone in famiglia custodiamo alcuni quadri e disegni. Uno di essi quadri riproduce una marina di case gialle a pelo d’acqua su una tonalità di fondo azzurra. Titolo: Napoli Marechiaro.

Anni e anni di curiosità, osservavo quello scorcio marinaro e cresceva in me la voglia di andare a vedere dal vivo quella località dal nome così beneaugurale: Marechiaro sa di sole, di luce, anche di mare pulito, soprattutto di allegrezza e serenità d’animo. Chi abita a Marechiaro dev’essere lieto e felice per statuto, per decreto divino.

Insomma, durante l’annuale Giornata Napoletana che con Donatella ci organizziamo ogni volta che andiamo a fine maggio a Meta di Sorrento al b&b della Gallina Felice, quest’anno ci abbiamo messo pure Marechiaro. By bus, come i comuni cittadini. Gita urbana sentimentalmente e “culturalmente” piacevole, benché estremamente defatigante nel fisico per via del gran caldo e della grandissima folla autobussoria.

Mi pare che Marechiaro stia a Napoli come Boccadasse sta a Genova: un ex villaggio di pescatori quasi nel centro della metropoli portuale. A Genova come a Napoli (e mica solo lì, nel mondo) il contatto fra città e mare è mediato per lo più da edifici e strutture portuali, anche da luoghi ludici e culturali e da stabilimenti balneari ma sono tutte cose molto “urbane” e in fondo assai poco “marine”. Anche gli ombrelloni in fila sulla spiaggia sono poco marini, secondo me. Sono cose artificiali, umane e non naturali.
Ad esempio ci vuole un certo sforzo di fantasia per capire con chiarezza che a Genova l’antica strada porticata e popolare che oggi fronteggia piazza Caricamento con l’area del Porto Antico e l’Acquario si chiama Sottoripa perché fu costruita letteralmente “sotto la riva del mare”, ovvero dove sciaguettavano le onde e vivevano polpi e patelle. Idem a Napoli, ho appreso che la Riviera di Chiaia si chiama così perché lì c’era la riva del mare, prima che inventassero via Caracciolo.

Marechiaro, invece (come Boccadasse) è rimasto, almeno esteriormente, vero mare: la stradina tortuosa e la Scalinatella per raggiungerlo, barchette, spiaggette, scoglietti, il Vesuvio napoletanamente sullo sfondo, in quei dieci minuti che siamo stati laggiù (a fronte delle due ore necessarie per arrivarci e tornare in centro col bus) ho trovato, finalmente!, il quadro dello Ziomario “live” e tutte quelle vedute sette-ottocentesche che ritraggono scorci di Napoli pieni di natura e “bucolici” se così si può dire parlando di una città di mare. Gli stessi scorci bucolici che venivano dipinti a Genova, anch’essa così tanto più marittima nei secoli che furono rispetto alla Genova odierna. A Marechiaro come a Boccadasse il pullulare di ristorantini e baretti danno al marinamente bucolico contesto l’inevitabile tocco di modernità turistica ma nonostante ciò la visione d’insieme di Marechiaro ben si confà a quell’antica canzone di Ron “Mannaggia alla musica”, in cui il vagabondo suonatore Ulisse alla sera quando “smette di faticare… si siede in faccia al golfo di Napoli e ringrazia Dio”.

Breve nota finale di colore: scendemmo da Marechiaro a Mergellina con un affollatissimissimo autobus pieno di ragazzi di ritorno dal mare. Caciarosi come tutti i ragazzi ma in fondo tranquilli.
Prendemmo infine un altro bus pieno zeppo di sardine pigiate che dal teatro San Carlo si dirigeva verso corso Umberto I sino alla stazione (ci serviva la circumvesuviana per tornare a Meta): una delle sardine accanto (addosso) a me era un giovinotto robustotto sui 35 anni, maglietta bianca e faccia tranquilla. Iniziammo brevi conversazioni banali sul tempo, il caldo, il traffico, la folla eccetera. A un tratto, casualmente chinando lo sguardo sudato verso i piedi, mi accorsi che la mano del giovinotto si stava pericolosamente avvicinando alla tasca anteriore dei miei pantaloni dove tenevo il portafoglio.
Con repentina mossa da pistolero che si prepara al duello dell’Ok Corral lascio il sostegno del bus (tanto con quella folla non c’era da cadere) e metto ambo le mano su ambo le tasche, a coprirle saldamente e a impedire sgradite intrusioni.
La mano “ignota” si allontana felpata.
Ovviamente sarebbe stato ridicolo e assurdo dire “al ladro” e altre amenità del genere, quindi avviso sottovoce Donatella di tenere sotto controllo le sue tasche e la vacua conversazione col mancato borseggiatore riprende, io e lui facendo reciprocamente e signorilmente finta di niente.
Cocciuto, l’amico! Pochi minuti dopo riscorgo la stessa mano dello stesso personaggio che riprova ad avvicinarsi, arriva a contatto con la mia mano rigidamente salda sulla tasca, quindi rinuncia e si allontana.
Un paio di fermate dopo il giovine dice due parole in dialetto a un altro tizio, si avvicinano entrambi alla porta, lui ci saluta e scendono. Chissà se l’altro aveva messo a segno il suo colpo ai danni di qualche ignara sardina…

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